Miti e Mandati familiari della Famiglia Invischiante

Psiche Nessuno e Centomila

La questione del mancato svincolo dalla famiglia di origine è un tema molto complesso che affonda le sue ragioni nella tipologia di attaccamento ai caregivers (mamma, papà e chiunque si occupi della crescita di un bambino), nei meccanismi alla base della formazione del Sé, nei processi che presiedono lo sviluppo dell’autostima e, ovviamente, in quelli connessi all’acquisizione dell’autonomia. Quest’ultimo compito, è frutto di un processo complesso e duraturo che inizia nella primissima infanzia e che necessita di un contesto capace di dosare, nelle varie fasi di sviluppo, la necessità di proteggere il bambino e di infondergli sicurezza, con quello di motivarlo ad “allontanarsi” gradualmente dalla figure di riferimento: un contesto efficace a tale scopo è quello che promuove l’esplorazione da parte del neonato dello spazio circostante durante i primi tentativi di muoversi carponi, che rassicura il bambino nella prima fase di inserimento al nido (o alla materna) supportandolo nelle prime esperienze di separazione, che promuove i momenti di socializzazione presentandoli come un’occasione di arricchimento emotivo, che sostiene la funzione degli oggetti transazionali (ad esempio il peluche preferito con cui il bambino si addormenta) riconoscendone il valore di “sostituto materno” ecc. La letteratura sull’età evolutiva dell’ultimo trentennio e la vastità delle ricerche sul tema richiederebbero una trattazione specifica (e mai esaustiva) solo per introdurre l’argomento! Ciò che si vuole sottolineare in questa sede è la funzione determinante rivestita dalle figure di riferimento per facilitare o ostacolare il processo di svincolo.

La famiglia invischiante e le difficoltà di svincolo dei suoi membri

Un contesto familiare ansioso, un tipo di attaccamento insicuro, una famiglia caratterizzata da confini rigidi con l’esterno e da invischiamento tra i suoi membri, rappresenta un potenziale ostacolo per il buon esito dei processi di svincolo dei suoi componenti e per lo sviluppo di una sana autostima. Il bambino a cui viene continuamente veicolato il messaggio che il mondo esterno è pericoloso, che solo in casa si è al sicuro, che solo la famiglia può offrire un valido punto di riferimento, svilupperà quasi certamente dei tratti di dipendenza dalle figure di riferimento e al contempo un vissuto di insicurezza, che inficeranno le sue capacità di svincolo a partire dalla fase adolescenziale (difficoltà che, in base all’esistenza o all’assenza di eventuali fattori di compensazione, potranno protrarsi, se non adeguatamente affrontate, anche per tutta l’età adulta). La realtà clinica racconta sempre più frequentemente di adolescenti che si scontrano con questo tipo di ripercussioni negative quando si trovano a dover scegliere il corso di studi universitari (soprattutto se si paventa l’ipotesi di iscriversi in un Ateneo lontano dalla propria città) o quando si affacciano per la prima volta nel mondo del lavoro o ancora quando si devono misurare nelle relazioni affettive. Quando ci si mette in discussione su “banchi di prova” estranei a quelli noti e ovattati in cui si è cresciuti, emergono tutte le difficoltà rimaste latenti fino a quel momento, con conseguenze talvolta anche significativamente negative sul piano del benessere psicologico. Si tratta di soggetti a cui da sempre sono stati veicolati specifici “mandati familiari” (insieme di compiti, ruoli e aspettative che ogni membro è chiamato a ricoprire e soddisfare) aventi un carattere vincolante e limitante, finalizzati ad impedire in modo più o meno consapevole lo svincolo. La famiglia cosiddetta “invischiante” non consente ai propri componenti di esplorare il mondo autonomamente, attua sofisticate strategie di controllo più o meno esplicite, agisce sul senso di colpa; i confini tra i vari membri sono molto labili, tutti invadono tutti, tutti dipendono da tutti, ognuno agisce comportamenti atti a rifuggire la solitudine, il rifiuto e l’abbandono. Al figlio a cui non viene concessa la libertà di allontanarsi, correndo il rischio di soffrire, sbagliare e cadere, non verrà nemmeno concessa la possibilità di imparare a gestire il dolore della separazione, a rimediare ai propri errori e a rialzarsi dopo un fallimento. I genitori che faticano a porre in essere una relazione corretta con il figlio, cioè capace di promuovere le sue capacità di svincolo, in futuro saranno, molto probabilmente, incapaci sia di accettare e condividere i confini tra il proprio nucleo familiare e quello che il figlio andrà a costituire, che di gestire il vissuto di tradimento che sperimenteranno dopo il suo “abbandono del nido”.

Il ruolo rivestito dai rispettivi miti familiari nei processi di formazione della coppia

Non vi è casa che non custodisca nella propria cantina o negli scatoloni della soffitta i miti della famiglia che la abita, ovvero quelle chiavi di lettura della realtà (e di se stessa) ricevute in eredità dai propri antenati. Quello del mito è un costrutto usato per definire le credenze che ogni famiglia ha di se stessa, composto da immagini e leggende (che contribuiscono a creare il senso di identità della famiglia stessa) e da trame di aspettative che assegnano a ciascun membro della famiglia un ruolo e un compito specifici. “In qualsiasi relazione” – scrivono Andolfi e Angelo, rispettivamente terapeuta familiare e neuropsichiatra infantile – “si viene prima o poi a creare un mito, per il fatto che in ogni relazione rimane un margine di ambiguità, di non espresso, dove i vuoti di informazione nel processo di costruzione del legame e della reciproca conoscenza vengono colmati attraverso la formazione di stereotipi che cercano di indurre i partecipanti a comportamenti specifici, funzionali al mantenimento del legame”.
Nelle famiglie non patologiche, i miti si evolvono di generazione in generazione al fine di conciliare i valori del passato con le esigenze attuali; in quelle disfunzionali, invece, la rigidità dei miti e la loro resistenza al cambiamento, costringono i figli ad agire secondo regole prefissate dalla famiglia d’origine al fine di mantenere una sorta di omeostasi del sistema. Appare evidente quindi, come anche la scelta del partner, non coinvolga solo due persone, bensì la complessa trama di rapporti affettivi (genitore-figli, coppia genitoriale ecc) che li hanno preceduti e di cui entrambi sono il frutto (insieme a tutte le variabili intra – individuali). La trama di rapporti familiari influenza dunque in modo significativo le relazioni attuali (ciò spiega in parte anche perché spesso le persone si trovano ad affrontare problematiche simili in relazioni diverse): ognuno di noi, inconsapevolmente ricerca un partner che “si mostri disponibile” a realizzare specifici copioni al fine di soddisfare (o contrastare) il proprio mandato familiare. La funzione attribuita all’altro è quella di “parte mancante del puzzle”, capace di compensare i propri bisogni insoddisfatti o di risolvere i conflitti in sospeso con le passate relazioni problematiche. La qualità della relazione di coppia, la sua capacità di adattamento nel tempo, la sua funzione di allineamento, dipenderanno dall’immagine del puzzle comune che i due partner avranno costruito dopo aver avvicinato (o provato ad incastrare) le reciproche tessere.

Cosa accade quando un soggetto cresciuto in un contesto familiare invischiante e problematico manifesta la volontà di svincolarsi? Come reagisce il sistema familiare di fronte alla messa in discussione del mandato familiare affidato al membro che lo sta tradendo? Quali scelte affettive possono consentire al soggetto di dare seguito al mandato familiare ricevuto e contestualmente di realizzare un progetto di autonomia? Per approfondire leggi “Dalla Famiglia Invischiante alla Scelta del Partner”.

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8 pensieri su “Miti e Mandati familiari della Famiglia Invischiante

  1. Io credo che in questi casi l’unica salvezza sia costituita dalla presa di coscienza. Non si torna indietro, non si cambiano i genitori, ma ci si ferma e ci si rende conto che per troppo tempo, nel nostro percorso di sviluppo, alcune cose sono state date per scontate o riprodotte in automatico a partire dalla nostra infanzia, ma non possono funzionare o essere proiettate al di fuori della famiglie che le hanno generate. Anzi, nel momento in cui si riconoscono gli errori, le trappole, le false credenze, le ossessioni provocate dal mandato familiare, finalmente ci se ne libera. E i rapporti, non solo con noi stessi e con gli altri, ma anche coi genitori, possono migliorare. Più si nega, più si cerca il problema fuori, peggio si vive. Spesso però il mandato familiare è pericoloso proprio sotto questo aspetto: non tanto perché impone obblighi o richiede il mantenimento di certe tradizioni, ma perché plasma i suoi soggetti ( i figli, in altre parole) fino a fargli credere che solo la famiglia di origine vuole il loro bene, solo LEI li conosce, solo di LEI ci si può fidare. Cosa che è ben diversa dall’insegnare a un bambino, poi adolescente e poi adulto che al mondo ci sono difficoltà da superare, incontri che saranno alcuni buoni, altri cattivi; che dal rapporto con gli altri verranno le delusioni ma anche i successi; che ci vuole un giusto equilibrio tra prudenza e diffidenza.
    Tutti ci portiamo dietro, dalle nostre famiglie, un’eredità morale, spirituale e materiale: il problema è quando i genitori danno ai figli solo i lacci per restare legati a loro, e non anche le ali per indirizzare la propria vita adulta verso altre mete. E quando non vogliamo prenderne atto perché il solo pensiero di riconoscerlo ci fa sentire in colpa. Nei confronti loro, ma anche di noi stessi.

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    • Gentile Alessandra, i tuoi interventi non solo sono sempre molto acuti e profondi ma chiamano in causa una molteplicità di questioni. Quelle legate alla tipologia di ATTACCAMENTO (Bowlby docet!), ai miti e ai mandati familiari, alla confusione dei confini generazionali e ai processi di autonomia e svincolo dei figli. Purtroppo o per fortuna (e questo vale per tutti, non solo per le famiglie invischianti) ognuno di noi è il frutto di una complessità indefinita di variabili e questo è un dato incontrovertibile: ciò che invece rientra a pieno titolo nel nostro libero arbitrio, è la volontà di intraprendere il viaggio verso la consapevolezza e il cambiamento. Ritengo a tal proposito che sia degno di rispetto chi sceglie di convivere con i propri conflitti irrisolti e di custodire i propri demoni interiori con premura, ma solo se è l’unico a pagarne il prezzo, se si mostra abile a non portare il suo caos interiore nelle vite altrui, se è capace di inibire i pericolosi giochi di proiezioni sul mondo esterno e se non rivendica il diritto di riversare “fuori” tutto ciò che “dentro” non riesce a trovare una collocazione chiara e rassicurante! Doti articolate e non molto comuni! Grazie ancora per gli arricchenti contenuti con cui accogli i miei articoli! Buona serata! Con stima, dott.ssa Annarita Arso

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    • Cara Alessandra, condivido ogni parola. E ti assicuro che non è consolante sapere che non si è l’ unica a vivere un rapporto così compromesso! Anche nel mio caso, LEI è la Regina Madre, sa sempre tutto ciò che è giusto, ciò che serve al figlio, ciò che è preferibile per lui. Parla al posto suo e si sostituisce a lui anche nelle decisioni che rigurdano la casa o il lavoro. Ovviamente lui non se ne rende conto e legge nei suoi comportamenti un atto d’amore. Purtroppo l’Amore si deve trasformare, non può essere manifestato nello stesso modo a tre anni o a rrenta!

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      • Infatti, cara Elsa, e a quel punto non è più amore, ma egoismo. Sei una madre che non vuole che suo figlio cresca, e lo danneggia, rubandogli la vita. Ma per un figlio cresciuto in un’atmosfera affettiva così insana, è più facile sbarazzarsi degli altri legami che prendere coscienza di questa verità e tagliare il cordone ombelicale con la madre invadente. Anzi, la sua presenza ingombrante viene proiettata sulle altre donne: anche le più miti e discrete diventano, agli occhi di questi uomini, le streghe manipolatrici che non sono mai soddisfatte. Per la madre c’è sempre la giustificazione. Non vogliono aprire gli occhi, forse hanno paura di come reagirebbero verso “mammina” se si rendessero conto di come li ha ridotti.

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    • Alessandra, condivido ogni singola parola. Questi uomini non possono fare i conti con le loro mammine, perché non ne sono capaci. Queste donne li hanno programmati per fare i burattini e li tengono al loro guinzaglio esercitando il senso di colpa. Non gli hanno dato ali ma solo lacci che diventano, dinanzi ai tentativi di autonomia dei figli, cappi al collo! Gentile dottoressa, purtroppo, questi uomini non sono in grado di “non buttare fuori ciò che dentro non riesce a trovare una collocazione”: così il cappio diventa doppio… per loro e per la donna che ha la sventura di sposarli!

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  2. I figli non sono di nostra proprietà. Bisogna accudirli fino a quando ne hanno bisogno e poi permettergli di spiccare il volo, dandogli la sicurezza che potranno tornare nel nido a cercare conforto e aiuto nei momenti di difficoltà. Ma giusto il tempo per rinfrancarsi prima di spiccare di nuovo il volo verso orizzonti più azzurri.

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  3. Pingback: IL MITO FAMILIARE | ParliamonePsyc

  4. Pensavo di essere l’unica ad aver sposato un uomo già sposato. Con la madre. Quello che mi ha fatto quella donna sarebbe degno del peggior film horror. Neppure un regista sadico riuscirebbe ad inventare una trama più diabolica. Siete in felice compagnia signore. Potremmo inaugurare un circolo. Nuora per sbaglio

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