Non Sono come Tu mi Vuoi

Psiche Nessuno e Centomila

Ognuno di noi è composto da infiniti colori e molteplici sfumature. Eppure passiamo la vita a definirci e a farci definire, a collocarci dentro etichette note che finiscono con il diventare gabbie soffocanti. Abbiamo bisogno di cornici rassicuranti entro le quali dipingere la nostra quotidianità e finiamo con il divenire passivi spettatori di un quadro in cui, qualche volta, non ci riconosciamo più.
In ogni culla, tra lenzuolini ricamati e carillon della ninna nanna, si nascondono le prime definizioni che ciascun bambino riceve come corredo. In ogni nursery c’è “un bastone per la vecchiaia”, “il figlio maschio che garantirà continuità al cognome”, “la figlia della colpa”, “il frutto di un tradimento”, “il collante di un matrimonio sul baratro della separazione” e anche, come cantava una vecchia canzone di qualche anno fa, qualche “figlio di un preservativo rotto”. Le definizioni precedono la nostra nascita, si mescolano con le aspettative genitoriali, con i ruoli pre-esistenti in famiglia e con le proiezioni di vita non vissuta dei propri genitori. Un fardello pesante da sopportare tra un vagìto e una poppata ristoratrice. Un peso destinato a crescere infaticabilmente con il tempo e ad arricchirsi di etichette sempre più rigide e castranti che confluiranno nel proprio senso d’identità. “Il bambino iperattivo”, “lo scolaro diligente”, “la brava maestra”, “l’amico opportunista”, “la mamma amorevole”, “il marito fedele”, “la rovina-famiglie”: ciascuno diviene l’inevitabile risultato di tutte quelle etichette, definizioni, maschere come le definiva Pirandello, che gli sono state attribuite o che ha liberamente scelto di indossare.

Jung e la Maschera

Capita allora che si crei una distanza inconciliabile e sofferta tra ciò che vorremmo essere e ciò che ci sentiamo costretti a rappresentare, ingabbiati in definizioni tanto stringenti da non riuscire più a farci discernere tra ciò che appartiene a noi e ciò che appartiene ai ruoli che ci sono stati attribuiti. Un conflitto comune quello descritto, che trova ampie delucidazioni nelle teorizzazioni Junghiane e diviene spesso protagonista nel setting clinico. In “Anima e Persona“, il noto psicoanalista svizzero ne sviscera la complessità, mostrando quanto sia arduo guardarsi allo specchio riconoscendo la propria immagine denudata da quelle maschere indispensabili all’adattamento sociale.
In “Uno Nessuno e Centomila” Vitangelo Moscarda diviene invece frutto di un gioco di forme illusorie in cui risulta impossibile conoscere la “verità” e nel tentativo rivoluzionario di respingere tutte le maschere che gli erano state attribuite per lasciare spazio al proprio Io, scivola lentamente nella follia. Perchè è sempre difficile liberarsi dalle maschere, anche di quelle che non ci piacciono più perchè ormai ci sono familiari, ci siamo affezionati, sono in qualche modo rassicuranti. Liberarsene comporta sempre la rottura di “un gioco relazionale” e la proposta di “regole” nuove che chi ci circonda non sempre è contento di rinegoziare.

Giù la Maschera

Abbandonare la maschera è impegnativo, faticoso, spesso doloroso. Bisogna alzarsi dal divano, raggiungere la mamma in cucina mentre sorridente inforna i biscotti, consegnarle la maschera del figlio etero e dirle che la persona con cui si è scelto di dividere il letto non le potrà mai dare il nipotino che tanto desidera, ma lo rende felice, appagato, ebbro di vita. Oppure bisogna spegnere la tv, guardare dritto negli occhi la propria moglie e consegnarle la maschera del Principe Azzurro ancora avvolta nel cellophane che lei gli ha donato sull’Altare insieme all’anello e mostrarle quella virilità fatta di rughe e di capelli bianchi, da troppo tempo mortificata da una routine sbiadita e insapore di cui entrambi sono artefici. Oppure bisogna alzarsi in piedi durante il Pranzo di Natale, posare la forchetta accanto al piatto di lasagne e consegnare ai commensali la maschera di “pecora nera della famiglia”, rassegnando le dimissioni di un ruolo scomodo e sventolandogli sotto al naso l’album di fotografie che immortala tutte le altre declinazioni di se che gli altri da anni preferiscono ignorare.
Perchè le maschere, i ruoli, le etichette, non definiscono solo chi siamo agli occhi degli altri, ma influenzano in modo determinante tutte le relazioni che intratteniamo dentro casa, al bar, tra le lenzuola. Ostinarsi a indossare una maschera che non ci appartiene più rischia di soffocare ogni possibilità di “diventare qualcos’altro”. Continuare ad incarnare un ruolo che non ci soddisfa spalanca le porte alla nevrosi, ovvero a ciò che Aldo Carotenuto definiva “frustrazione da nullità”, che imbavaglia la nostra essenza e ci costringe a sopravvivere nel perimetro ristretto di un’etichetta preconfezionata. Solo tagliando le invisibili catene che ci impongono di recitare la parte di comparsa in un copione scritto da altri è possibile divenire protagonisti di una storia su misura e dirsi, osservando fieramente l’immagine riflessa nello specchio, come scriveva Jung, “Non sono quello che mi è successo, sono quello che ho scelto di essere”.

 

6 pensieri su “Non Sono come Tu mi Vuoi

  1. Grazie di questo bel articolo. Un dubbio…ma è possibile che uno si ritrovi bene a svolgere un ruolo mascherato? Un ruolo nel quale ottiene ciò che desidera al punto che la sua maschera diventa ciò che in effetti è? Magari scena accorgerne o semplicemente abituandosi a essere così?

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    • Ciao Marco Andrea e benvenuto! Se mi sta chiedendo se è possibile identificarsi (inconsciamente o intenzionalmente) con una maschera imposta da altri per via del tornaconto che ne deriva (denaro, gratificazione narcisistica, potere nella relazione, delega delle proprie responsabilità, strumentalizzazione di un sintomo ecc) , la mia risposta è: ASSOLUTAMENTE SI. Grazie per aver saputo leggere così bene oltre le parole. Ps. Al più presto farò una passeggiata nel suo blog!

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  2. Mi accorgo solo adesso di questo post: è evidente che perdo colpi.
    L’avevo visto sulla pagina facebook di mia sorella, ma ho pensato fosse “vecchio”.
    E invece è così pieno di verità.
    Se le fa piacere le farò leggere un mio vecchio post a proposito dei pranzi di Natale in famiglia.
    Centro ancora una volta.

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