Pokèmon Go e la Sindrome del Rabdomante

Psiche Nessuno e Centomila

Sono giorni che non si sente parlare d’altro che di Pokèmon Go. Se negli ultimi tempi non ci fossero stati uno dei peggiori disastri ferroviari dell’ultimo ventennio, un presunto colpo di Stato in Turchia e attentati terroristici a Nizza e a Monaco, ci sarebbe poco da stupirsi; non ci si stupirebbe che anche i tg nazionali, a cavallo tra le previsioni meteo e gli aggiornamenti sul prossimo reality, si occupino della nuova moda con approfonditi e scrupolosi servizi giornalistici (?); non ci si stupirebbe neppure che un semplice gioco possa esser diventato in breve tempo il principale intrattenimento tra i papà al parco mentre i figli si contendono a calci il turno sull’altalena e l’argomento di conversazione preferito tra mamme, su pagine web nate per postare rimedi contro i rossori da pannolino. Prevedibile allora da più parti, la corsa ad approfondire l’argomento del giorno e a individuare le ragioni di tanto successo.
Pokémon Go è un’applicazione per smarthphone (iPhone o Android) che utilizza il GPS e la fotocamera e che, grazie alla tecnologia di realtà aumentata, regala al giocatore l’illusione che il mondo reale sia popolato dalle note creaturine in attesa di essere catturate con un semplice click. L’app effettua la mappatura del percorso del giocatore e non appena questi si trova in prossimità di un Pokèmon, riceve il segnale attraverso una vibrazione del telefono e può procedere alla sua cattura lanciandogli addosso una sfera Poke. Finalità del gioco è quella di catturare il maggior numero di Pokèmon possibile per riuscire a completare il Pokédex, una sorta di moderno album delle figurine. L’app in questione, in pochissimo tempo ha scalato tutte le classifiche, risultando la più scaricata di tutti i tempi e lasciandosi alle spalle a notevole distanza Facebook e Twitter. Il successo di questo gioco basato su personaggi già familiari, a detta di molti, sembrerebbe essere fortemente collegato ad una sorta di “effetto nostalgia”, fenomeno ampiamente spiegato da Routledge, professore di Psicologia alla North Dakota State University che da oltre 10 anni analizza gli effetti prodotti dalla condivisione di ricordi.

Realtà o Follia Aumentata?

Oltre all’effetto nostalgia che, visto da un’altra prospettiva, potrebbe anche essere tradotto in una diffusa e dilagante infantilizzazione, altro elemento cardine per spiegare simile successo sembrerebbe essere legato alla fascinazione della realtà aumentata, ovvero di quello spazio reale popolato artificialmente da oggetti inconsistenti. La tecnologia su cui si basa questo nuovo gioco infatti, consente al giocatore di accedere ad una sorta di universo parallelo in cui è possibile percepire oltre ai dati reali, anche qualcosa che in realtà non esiste. Un principio allucinatorio a tutti gli effetti quindi, componente tipica come tutti gli addetti ai lavori sanno, di alcune forme importanti di psicopatologia. Il cacciatore di Pokémon non fa esperienza del mondo reale, ma di una sua mistificazione; ne fa esperienza di socialità quando diviene parte di una squadra, ma esperienza di condivisione della stessa realtà artefatta, in vista dello stesso comune obiettivo. Una proposta allucinatoria e delirante. Nient’altro che un’allucinazione e un delirio artificialmente indotti a detta dei numerosi detrattori.
Superfluo sottolineare quanto i potenziali effetti nocivi di qualsiasi strumento siano strettamente correlati all’(ab)uso che se ne fa. Di certo chi intravede in questa applicazione un’occasione per ridurre la tendenza al ritiro sociale, probabilmente non tiene conto della realtà artefatta in cui il soggetto penetra una volta varcato l’uscio, né delle “reali” motivazioni che lo spingono a farlo.
Qualcuno si è anche espresso in merito al potenziale effetto antidepressivo di questo gioco, esaltando le benefiche conseguenze del nutrimento incorporeo offerto dalla dimensione irreale, per gestire il vissuto di vuoto del depresso. Ebbene, la depressione è una grave forma di sofferenza psichica che si presenta in molteplici forme, alcune delle quali associate a sintomi psicotici, ovvero a quella che noi clinici chiamiamo compromissione dell’esame di realtà. In termini meno tecnicistici, c’è da ipotizzare che la realtà aumentata potrebbe addirittura aggravare i sintomi in persone che già presentano difficoltà a discriminare ciò che è reale da ciò che è partorito dalla propria mente, non guarirli. Pertanto, se è vero che non è possibile demonizzare un gioco come se si trattasse di un biglietto per un moderno paese dei balocchi funzionale ai processi di distrazione di massa o di una bacchetta magica per trasformare in rabdomanti pericolosi esseri pensanti, come si spingono a gridare i complottisti dell’ultim’ora, sarebbe altrettanto auspicabile non osannarla come un nuovo metodo psicoterapeutico efficace quanto la combinazione di dosi massicce di Xanax e dieci anni di psicoanalisi. In aggiunta, senza effetti collaterali per la salute e per il portafoglio. E se è vero che ci vorrà qualche tempo per indagare con cognizione di causa le conseguenze a livello psicologico di questa mania dilagante, è indiscutibile che, al momento, i meccanismi di base sui quali è stata pensata rappresentano un’impareggiabile vittoria della Nintendo.

Quale effetto nostalgia?

Ciò che sicuramente non mancheranno ad arrivare saranno i profondi (e duraturi?) cambiamenti a livello sociale. C’è da chiedersi cosa scriverebbe oggi Oliver Sacks, neurologo di fama mondiale, di cui tra poco ricorre il primo anniversario dalla morte; autore di “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello”, oggi probabilmente ci avrebbe aiutato a comprendere cosa passa nella mente di un uomo che scambia il cappello di sua moglie per un Pokèmon. In un’epoca in cui, verosimilmente, i topi di appartamento potranno provare a difendersi in tribunale dicendo che non erano a caccia della cassaforte ma solo di una creaturina piuttosto rara per completare la propria enciclopedia virtuale; in cui i fedifraghi a corto di scuse plausibili potranno avere un alibi credibile per uscire di casa e le madri uno strumento in più per convincere i figli a portare fuori il cane la sera. In un tempo in cui una donna che scorge un uomo con sguardo entusiasta venirle incontro come fosse in preda ad una visione mistica, dovrà fare i conti con il fatto che potrebbe davvero essere preda di un effetto allucinatorio! Che potrebbe non trattarsi del tanto atteso principe azzurro, né del temuto cacciatore di dote, ma solo di un accanito cacciatore di Pikachu. In un’epoca in cui il vero effetto nostalgia dovrebbe sorgere dal ricordo del ragazzo che chiedeva il tuo numero telefonico all’amica del cuore e se non aveva il coraggio lo cercava sull’elenco telefonico e se la timidezza ancora era troppo forte, ti faceva le chiamate anonime pur di sentire la tua voce e se anche la cornetta non era abbastanza per nascondere il proprio rossore, ti infilava nello zaino un bigliettino sgrammaticato. E poi sguinzagliava l’amico comune che ti veniva a scampanellare sotto casa per sapere che effetto ti avessero fatto quelle quatto righe malamente scopiazzate dal libro di antologia. La nostalgia del tempo in cui la timidezza non veniva patologizzata e il “ritiro sociale” era solo una sconosciuta espressione da enciclopedia; quando l’antidepressivo più efficace lo trovavi in piazzetta, tra quei volti assiepati sul muretto ricoperto con promesse fatte d’inchiostro e fiducia nell’altro; quando le cose non venivano semplicemente demonizzate o osannate, ma gli si attribuiva il peso che meritavano e i giochi venivano distinti dalle cose serie e alle cose serie veniva dato il giusto ordine di priorità e le priorità non si barattavano con il conformismo a basso costo.

3 pensieri su “Pokèmon Go e la Sindrome del Rabdomante

  1. Ha centrato il punto dottoressa. Questa faccenda dell’effetto nostalgia é solo una scusa per vivere in un videogame e sfuggire alle responsabilità. Oggi in ufficio, un collega mi ha detto che con l’app spera di riallacciare un legame con suo figlio. Se andare a caccia di pokemon é un modo per comunicare con i figli, io non ho capito nulla della vita. Complimenti per i suoi articoli, sempre degni di nota e per la versatilità con cui si cimenta in argomenti tanto diversi. Con stima, Giulio.

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  2. Io gioco in continuazione. In famiglia si passava il tempo a praticare giochi di società, a costruire giochi e ho sempre affrontato il lavoro come un gioco. Quando vado a trovare i miei genitori giochiamo ancora. Sono sposata e ho un marito a cui piace giocare e abbiamo amici con cui ci facciamo grandi partitone a Risiko. Ho passato il capodanno ad una festa dove, a turno, si giocava con il Nintendo e tutti erano coinvolti nelle sfide, anche chi faceva da pubblico e una volta stremati ci siamo seduti e abbiamo fatto l’ultimo gioco della serata. L’ultimo gioco è consistito nel esporre un obbiettivo da raggiungere nella propria vita entro la fine dell’anno nuovo, una sorta di confessione pubblica con possibilità di redenzione. A quella festa non conoscevo quasi nessuno e ora posso dire di avere una sorta di legame con queste persone.
    Non è vero che il gioco, che sia tramite cellulare o console o che altro, sia una cosa negativa.
    Mentre leggevo questo articolo stavo scaricando un gioco di enigmi che tenterò di risolvere, magari con l’aiuto di mio marito.
    Ho scaricato anche pokemon go, sono sempre incuriosita dalle nuove tecnologie, ma una volta fatta l’analisi del suo funzionamento non c’ho più giocato. Mio marito mia ha regalato, 3 mesi fa, una lente per macro e preferisco andare in cerca di insetti strani da fotografare. Probabilmente, se non mi avesse fatto questo regalo avrei dedicato un pochino più di tempo a pokemon go ma ci sono insetti più strani dei pokemon. 😉

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